Vol.6 San Valentino
Non ho quasi mai festeggiato il giorno di San Valentino in vita mia. Principalmente perché spesso mi è capitato di essere completamente single in quel periodo, ma anche perché non è una festa che mi sia mai piaciuta particolarmente.
Nonostante ciò, questo mese ho deciso di raccontarvi della mia prima ed unica esperienza del San Valentino in Giappone.

All’epoca dei fatti, ammetto di averla vissuta con la drammaticità della protagonista di un film d’amore di quelli strappalacrime. A pensarci ora, forse era più una situazione alla Bridget Jones… ma andiamo per gradi.
Durante il periodo del mio ryuugaku (erasmus), avevo trovato lavoro da Starbucks. Il fatto che avessi deciso di lavorare lì non era casuale. Tanto per iniziare, mi piaceva molto l’atmosfera di Starbucks, in più una delle mie migliori amiche giapponesi Miki lavorava lì.
A differenza del negozio in cui lavoravo io, che si trovava a Shinjuku ed era sempre affollatissimo, lo Starbucks “B-side” nel quale lavorava Miki, trovandosi in una stradina interna parallela alla via principale di Omotesando, era quasi sempre molto tranquillo.
Io e la mia amica Marta avevamo preso l’abitudine di andare lì il pomeriggio (quando entrambe eravamo libere e non dovevamo lavorare) a trascorrervi ore intere, studiando e chiacchierando nelle pause dallo studio, sempre sorseggiando, io il mio caffè americano, e lei il suo white mocha (il caffè con la moca).
Proprio durante uno di quei nostri pomeriggi di studio al B-side, entrò lui, Yamazaki senpai, “スタバの王子様 Sutaba no Oojisama (il principe di Starbucks)”.
Yamazaki senpai era un collega di Miki. Credo avesse la mia età, o forse era addirittura di un anno più piccolo, ma avendo iniziato a lavorare da Starbucks molto prima di me, per me era un “せんぱい senpai (termine giapponese per indicare un collega superiore)”. Il principe di Starbucks era intelligente, simpatico, spiritoso e ovviamente, molto molto carino. Fu un ひとめぼれ hitomebore (amore a prima vista) fulminante, di quelli che all’improvviso ti vengono fuori gli occhi a cuoricino, in stile 少女まんが shoujo manga (manga per ragazzine).
Da quel giorno le nostre visite al B-side, manco a dirlo, si fecero ancora più frequenti. Ogni volta che avevamo un po’ di tempo, trascinavo Marta ad Omodesando, nella speranza che Yamazaki senpai quel giorno fosse di turno, e quando c’era, trascorrevo tutto il tempo a fissarlo come una cretina.
Per mesi il mio hitomebore rimase tristemente un “かたおもい kataomoi”, ovvero un amore non ricambiato, ma dal momento che la mia strategia di conquista consisteva principalmente in una sorta di stalking, non è che ci fosse poi nulla di strano nel fatto che la situazione non si fosse affatto evoluta. Ogni volta che Yamazaki senpai mi rivolgeva la parola, quando riuscivo ad articolare una risposta, il più delle volte erano una risposta stupida o dei versi senza senso.

L’occasione di riscatto arrivò appunto a San Valentino.
In Giappone a San Valentino è usanza che le ragazze regalino del cioccolato agli uomini. Ci sono vari tipi di cioccolato, il “義理チョコ ghiri choko”, che viene regalato ai compagni di scuola o ai colleghi di lavoro, il “友チョコ tomo choko” che viene regalato agli amici, e per finire “本命チョコ honmei choko”, che è quello destinato alla persona per la quale si prova qualcosa, cioè il fidanzato o nel mio caso, il principe di Starbucks. Di solito l’honmei choko non viene acquistato, ma viene preparato e confezionato a casa, ma io ovviamente scartai subito questa ipotesi. Un po’ perché poi mi sarei sentita ancora più in imbarazzo nel darglielo, un po’ perché non so cucinare. Ma siamo onesti: soprattutto per la seconda ragione.

Il giorno di San Valentino andai al B-side sperando che ci fosse anche lui, e quando lo vidi alla cassa, tirai un sospiro di sollievo… c’era! Avevo un sacchetto con i pacchettini, tutti uguali tranne uno, e dovevo solo riuscire a consegnare a Yamazaki senpai quello giusto. Non era difficile, potevo farcela. Andai alla cassa e consegnai al senpai il suo pacchetto, lui mi ringraziò, io balbettai qualcosa. Si offrì di prendere in consegna il sacchetto, così da poter dare il cioccolato anche agli altri colleghi quando avessero terminato il turno. Decisi di prendere un caffè prima di andare, e nel mentre, fantasticavo sulle possibili reazioni di Yamazaki senpai al mio biglietto, che in realtà era una cosa abbastanza semplice, perché diceva solo “好きです sukidesu (mi piaci)”, e aveva sul retro il mio indirizzo della mail del cellulare.
Quella sera ero agitatissima.
Mi chiedevo cosa se mi avrebbe scritto e cosa. Fissavo il cellulare e controllavo i messaggi ogni due secondi.
Quando ad un tratto, eccolo, un messaggio.
Lo aprii con le mani che quasi mi tremavano: “イレ、チョコありがとうね!私もイレのこと好きだよ!Ile choko arigatou ne! Watashi mo Ile no koto suki da yo! ” (Ile grazie del cioccolato! Anche io ti voglio bene!).
Era un messaggio da Miki.
Scoprii poi che Yamazaki senpai, credendo che i pacchettini fossero tutti uguali, aveva dato il suo a Miki, e ne aveva preso un altro a caso dal sacchetto.
Miki doveva aver pensato che fosse proprio per lei, e nonostante forse avesse trovato strano che le avessi scritto anche il mio indirizzo sul biglietto, non mi chiese nulla al riguardo e la cosa finì lì.
Il mio piano non era stato così geniale.
Un mese dopo Yamazaki senpai, terminata l’università, lasciò il part time da Starbucks per cercare lavoro. Non lo vidi mai più.
E questa è la triste storia del mio San Valentino in Giappone, nella quale ho finito per aggiungere alla varietà di cioccolato da regalare, anche una mia personale: il バカチョコ baka choko (cioccolato stupido).
Alla prossima.
Ileana Campofreda